Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Poche volte Giuseppe Verdi è riuscito a rappresentare il dramma della sofferenza come quando, all’arrivo di Alfredo, fa dire alla morente Violetta: «Ah, dunque fu delirio la credula mia speranza; invano di costanza armato avrò il mio cor!» (Traviata, atto III, scena 6).
La sofferenza avvolge tutto nella nebbia del dolore, come ci ricorda Alda Merini. La fragilità di chi è afflitto può diventare rabbia, pianto, preghiera, richiesta di vicinanza! Manifestazioni che è facile incontrare in ogni forma di arte. Solo Lady Macbeth è incapace di soffrire. Nella tragedia dapprima shakespeariana e poi verdiana, il suo cuore ha una corazza: la smisurata passione per il potere.
Indipendentemente dall’intensità e dalle espressioni, la persona sofferente non sopporta confronti né si acquieta quando la sua esperienza è paragonata con altre analoghe. Fatta salva la buona fede, è ingenuo pensare di alleviare la sofferenza raccontandone una diversa, seppur dai risvolti ancor più drammatici. Il volto o la voce deformati, comunque siano segnati dal dolore, vanno accolti e custoditi in un silenzio partecipe e discreto. Aspettando insieme che si diradi la nebbia fitta dell’esperienza comunicata.
Quanta banalizzazione si rischia equiparando, o quasi, la sofferenza personale a quella di Gesù! Quella, sì, insopportabile e per giunta inflitta a un innocente!
La sofferenza, qualunque essa sia, non va offesa. Nemmeno nel tentativo di lenirla. Certe parole e certi rimandi hanno, a volte, tutta l’aria di essere trucchetti di cattivo gusto. Per lo più, ne è protagonista chi non ammette che la sofferenza, prima o poi, si faccia strada nella propria vita, reclamando i suoi spazi, sotto forme e con nomi diversi.
Quella sofferenza è segno di vita. Paradossalmente e allo stesso modo in cui esplode l’entusiasmo per un amore sbocciato o per un progetto andato a buon fine. Soprattutto se si trova qualcuno che sappia accompagnare quella sofferenza con empatia, con discrezione, senza soffocare i gemiti, permettendo alle lacrime di rigare il volto e alla voce di dire col poco fiato rimasto: «Perché mi hai abbandonato?». E avere l’umiltà di non ricercare ad ogni costo risposte alla sofferenza così emblematica in quel grido. Risposte raccattate spesso da pagine che non conoscono il sapore delle lacrime o la gioia di una condivisione vera, possibile solo all’interno di relazioni leali.
In questa nostra epoca ci viene rubata la capacità di accogliere una sofferenza che non assomigli né a resa né a disperazione e che, invece, sappia farci attraversare i momenti di tenebra. Tenendo comunque in mano la flebile ma preziosa lampada della speranza.