Peccato

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Troppo facile, deresponsabilizzante e frustrante accettare che a renderci spesso un «fetido pantano» sia un imprevisto «getto d’acqua di sentina».
La pensa così uno dei protagonisti del romanzo Jane Eyre di Charlotte Brontë. Ma, la pensa così anche l’etica sviluppatasi lontana da una corretta lettura delle pagine bibliche, e più vicina a discutibili modelli antropologici. Per le teorie deterministiche, ad esempio, la persona è prigioniera di strutture socio-economiche, culturali e psicologiche, e quindi non responsabile di eventuali «fetidi pantani».
Se abbandonassimo la lettura semplicistica del drammatico – eppure aperto alla speranza – racconto biblico del peccato di Adamo ed Eva (Genesi 3), accoglieremmo con realismo, anche se sofferto, la parola peccato nel nostro vocabolario esistenziale. Amara e reale possibilità per la nostra vita.
Riconoscere, in questo contesto, «Immacolata» (senza macchia/peccato) la Madre di Gesù, potrebbe aiutarci a sentirla più vicina. Riconosceremmo che, come in Lei, ogni tratto della nostra esistenza è segnato da spinte interiori positive, che alimentano risposte pronte e generose. Senza sentirci, per questo, al riparo da cali di tensione, talvolta veri e propri moti di ribellione.
In tutti vi sono raggi di sole e delicate folate di vento, che fanno crescere le piante che adornano il nostro giardino interiore. Su di esso, però, possono affacciarsi veri e propri uragani, che lasciano vivo solo qualche germoglio nascosto sotto terra, o che è riuscito comunque a rimanere al riparo.
Superficialità, pressappochismo e presunzione aprono la strada alle forze che distruggono il nostro giardino interiore. Peccato è coltivare, in maniera occulta o sfacciata, azioni e parole che diffondono falsità e sfregiano la dignità propria e altrui; silenzi colpevoli che si ergono come muri di omertà e impediscono alla verità di farsi strada; inerzia e indolenza che distruggono la propria e l’altrui voglia di vivere.
Si capisce allora che, prima di offendere Dio (per chi crede), il peccato è offesa alla dignità della persona, propria e altrui. Il peccato è parole, gesti e silenzi che – nel rifiuto di quella che la tradizione ebraica chiama mitzvah, cioè il retto cammino per avanzare lungo il faticoso ma fecondo sentiero della vita – ritardano l’umanizzazione piena di sé stessi e il progresso della comunità di appartenenza. Mentre la teshuvah, che è riconoscimento e confessione dei consapevoli «no» detti alla mitzvah, è l’unica possibilità di ridare senso riuscito alla propria vita. Dando ragione così a G. Papini, per il quale: «Si può entrare nel regno di Dio anche dal portale del peccato» (Il diavolo).

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