Ospitalità

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Nelle lingue indoeuropee è chiara l’ambivalenza della parola ospitalità/ospite. In italiano, ad esempio, «ospite» è sia la persona che accoglie sia chi viene accolto. Tale ambivalenza, secondo E. Benveniste (Il vocabolario delle istituzioni europee), è dovuta alla radice hostis (equivalente del greco xenos), presente nella composizione della parola ospitalità. Essa, indicando chi ospita e chi viene accolto, implica l’impegno della persona accolta a essere ospitale. L’impegno dunque, nato all’interno dell’ospitalità, crea un legame che vale anche per i discendenti. Per i Greci è un dovere rituale: la ξενία (xenía).
Omero ha pagine drammatiche e commoventi per descrivere la forza del legame creato dall’ospitalità. Nell’Iliade (VI, 119-236), Diomede, prima di ingaggiare un duello, chiede che l’avversario (Glauco) riveli la propria identità. Vuole essere sicuro che chi gli sta di fronte sia degno di battersi con lui. Glauco rivela di essere discendente dell’eroe Bellerofonte. A quel punto, Diomede ricorda che la sua famiglia è legata a quella di Glauco da un vincolo nato dalla ξενία: suo nonno Oineo aveva ospitato Bellerofonte nella sua reggia. Riconosciutisi come ospiti, i due rinunciano a combattere: decidono di scambiarsi le armi come simbolo tangibile del legame ancora vivo tra le loro famiglie.
Nel contesto del latino classico l’hostis è il nemico. Viene abbandonato del tutto il rimando semantico alla ξενία, espressa invece dai latini col termine hospes.
Il valore rituale dell’ospitalità nel mondo omerico, come nella cultura semitica, trova la sua ragione nella convinzione che in ogni hostis (forestiero, ospite) poteva celarsi una divinità o un suo messaggero a cui era dovuta, prima di chiederne l’identità, un’offerta di cibo e di alloggio. Come fece Abramo presso le querce di Mamre (Gen 18,1-5).
Nella nostra società, spesso decisa a presentarsi come società dei muri e delle passioni tristi, sembra non esserci troppo spazio per questo tipo di ospitalità. Essa infatti può nascere solo dove, oltre all’immaginazione, si coltivano un pensare e un credere ospitali. Lontani dalla logica tossica dell’inimicizia e dell’indifferenza. In questa logica, c’è spazio solo per una ospitalità alienante – messa in scena da Kafka – tra gente che si trova casualmente vicina, in una reciproca estraneità. E nella quale è difficile accettare che l’alterità non sia minaccia per l’identità.
Tuttavia, senza facili irenismi, bisogna mettere in conto che l’ospitalità è un’esperienza esigente e una scommessa senza condizioni. L’unica però capace di far crescere il capitale di fiducia che tiene in vita le relazioni vere.

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