Mitezza

Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Mitezza – L’equivalente greco del latino mitis (dolce, tenero, maturo) – riferito a un frutto, ma detto anche di una persona – è pràos, riferito a un cavallo domato, mansueto. Lo si dice però anche di un uomo. Mosè, ad esempio, è “uomo mite” (domato), dopo aver ucciso due egiziani e dopo aver vagato a lungo nel deserto (Num 12,3). Resta difficile, in ogni caso, trovare l’esatto equivalente della parola greca πρᾳότης. Forse perché con essa non si descrive tanto la gentilezza o la mansuetudine esteriore, quanto la pacificazione interiore; non il modo di comportarsi di una persona, ma il suo atteggiamento interiore. A differenza de “La mite” di Dostoevskij, che muore suicida perché incapace di resistere alla tortura delle parole e ancor più dei silenzi del marito, la persona mite è una lottatrice. Non si arrende di fronte alle ingiustizie e alla prevaricazione perché i miti non sono i rassegnati, i rinunciatari o i remissivi. Piuttosto che un rifugio consolatorio, la mitezza è una qualità umana attiva, che domanda il mettersi in gioco come persone e non come personaggi. Non avendo rinunziato alla ragione, la persona mite la fa valere con fermezza e audacia, senza ricorrere alle armi della tracotanza dei gesti e della prepotenza delle parole.
Si impara la mitezza e si cresce in essa misurandosi con perseveranza con quanto la vita pone sulla propria strada. Questo esercizio fa della mitezza il frutto maturo di ascesi e di conquista. Espressione di una grande libertà interiore, che permette di accostarsi alla realtà e agli altri senza pregiudizi.
Ma, quale incidenza ha la pratica della mitezza nella vita di relazioni in genere e in quella politica in particolare?
A chi ritiene la mitezza una virtù “politica” si oppone chi, come Norberto Bobbio, afferma che “La mitezza è la più impolitica di tutte le virtù”. Infatti, la politica – quella che si ispira per lo più al machiavellico Principe – si nutre di spregiudicatezza, opportunismo, cinismo, arroganza e protervia. La persona mite cerca invece istintivamente il bene comune, frantumando il cerchio dell’egoismo nel proprio cuore e, potendolo, anche in quello degli altri. Si capisce allora che considerare “impolitica” la mitezza non vuol dire rinchiuderla in una logica privatistica.
Dichiarandosi estranea a ogni logica concorrenziale e di accesa rivalità, la persona mite cerca l’incontro, dopo aver abbandonato ogni dogmatismo e ogni forma di integralismo, a vantaggio dell’imperativo che chiede di lasciare all’altro di essere quello che è. Si capisce allora perché la mitezza non è qualcosa di astratto e nemmeno una predisposizione del carattere o un sentimento: è una prospettiva di vita anti-eroica, che si nutre di gesti precisi e di prese di posizione chiare e audaci, per quanto non sempre e non necessariamente vincenti. “L’uomo mite – diceva Martini – è colui che, malgrado l’ardore dei suoi sentimenti rimane duttile e sciolto, non possessivo, interiormente libero, sempre sommamente rispettoso del mistero della libertà”.

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