Miracolo

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

La parola miracolo, in alcuni contesti, basta da sola ad alienarsi la simpatia di chiunque si ritenga mediamente acculturato. Vi è chi – come B. Spinoza nel suo Tractatus theologico-politicus (cap. 6) – ritiene che il miracolo sia «mera assurdità».
Nel tempo, con esiti diversi, il miracolo ha attirato comunque l’attenzione di filosofi, scienziati, teologi e letterati. Già nell’antichità classica era ritenuto miracolo qualsiasi evento eccezionale o inspiegabile che, proprio per questo, veniva accolto come manifestazione della volontà divina. È così, ad esempio, nell’Iliade (II, 34-38) e nell’Odissea (XII, 394-396).
Presso i latini, la parola miraculum non evoca subito il mondo religioso. È piuttosto una iperbole con la quale si indica tutto ciò che – riferito all’uomo, a un evento o a una realtà – trascende le comuni possibilità di capire, di esistere o di agire. Per cui miraculum può essere una vittoria militare di eccezionale portata, un intervento che trasforma una realtà in maniera imprevedibile, tanto da provocare sorpresa, stupore e meraviglia. A confermare questa concezione del miracolo è la sua stessa etimologia, che fa derivare miraculum (cosa meravigliosa) dal verbo latino mirari (ammirare, meravigliarsi). In greco, soprattutto nel greco del Nuovo Testamento, gli eventi miracolosi possono contare su ben quattro termini, con accentuazioni differenti: semèion (segno), tèras (prodigio), thàuma (meraviglia), dΰnamis (potenza).
Una riflessione più accurata sulla Sacra Scrittura e sui Padri della Chiesa ha contribuito, a partire dagli inizi del ‘900, a ridimensionare l’interpretazione esclusiva del miracolo come intervento di Dio che infrange il corso delle leggi della natura. Ai miracoli è stato restituito il significato più profondo di segni e gesti che invitano l’uomo ad aprirsi a una p/Presenza e a un annunzio che lo riguardano. I miracoli non possono essere ridotti, cioè, a interventi dimostrativi di una potenza che intende, con essi, mettere all’angolo qualcuno. Lo stesso Gesù chiede spesso agli ammalati da lui guariti di rimanere in silenzio. È anche per questo che, nella teologia cattolica, i miracoli non sono la strada ordinaria dell’annuncio cristiano e a nessuno è fatto obbligo di crederci. Anzi la Chiesa non smette, talvolta a costo di dispiacere a qualcuno, di mettere in guardia da frettolose attribuzioni di miracoli.
Ancora oggi è possibile recuperare l’orizzonte in cui resta intatto lo spazio per l’esperienza del miracolo. È l’orizzonte abitato dall’uomo che conserva e coltiva la sua capacità di interrogarsi, stupirsi e sentirsi interpellato da ciò che supera i suoi calcoli e i suoi progetti. Ammettere la possibilità del miracolo vuol dire oggi riconoscere che ciò che conosciamo, sappiamo e sperimentiamo non è il tutto; che abbiamo il diritto di aspettarci altro e il dovere di fare il possibile perché avvenga. Accogliere la possibilità del miracolo è, insomma, prendere le distanze da ogni forma di determinismo e di fatalismo paralizzanti. Perché tutto ciò che eccede l’umana comprensione è segno di una p/Presenza che chiama alla responsabilità.

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