Indignazione

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Le polarità semantiche della parola indignazione sono rappresentate dal significato che le hanno attribuito Spinoza e Nietzsche. Nella sua Etica, il filosofo olandese ritiene che l’indignazione sia «l’odio contro colui che ha fatto male ad un altro». Con tutt’altro spirito guarda all’indignazione il filosofo tedesco, che scrive in Al di là del bene e del male: «Nessuno mente quanto l’indignato». Per il primo, quindi, l’indignazione è la reazione contro qualcosa di inaccettabile, che danneggia un altro. Il secondo vede invece nell’indignazione il modo di essere e di sentire di chi è incapace di accettare la propria vita e di viverla in pienezza. Insomma, l’indignazione come variante del risentimento.
Questa polarità può essere superata già a partire dall’etimologia, che fa derivare la indignatĭo dal verbo latino in (col senso di ‘non’) – dignari; letteralmente: togliere valore, dignità, a qualcuno o a qualcosa. L’indignato è colui che toglie dignità, e quindi non riconosce alcuna credibilità, a chi compie gesti o mette in atto decisioni che danneggiano qualcuno.
A differenza di Giovenale – che attribuiva all’indignazione un carattere privato, utile solo ad ispirare la satira contro i mali della società – la indignatĭo è un atto profondamente politico, con una forte valenza pubblica, non riducibile a una sorta di resa dei conti. Con questi caratteri, assieme al senso di grande responsabilità, l’indignato è al riparo dal narcisismo sensazionalistico tipico di coloro che, essendo in servizio permanente, formano le file degli indignati “a prescindere”. A costoro manca il tempo, e forse le capacità intellettuali, per identificare con chiarezza l’oggetto che provoca indignazione e gli strumenti utili per comunicarla, per ridurne l’impatto negativo e per conferirle una forza rivoluzionaria. È un’indignazione senza narrazione, piuttosto isterica, come gran parte di quella alimentata dalle agenzie del rancore. Dilaga in forma “cosmica” che, proprio perché tale, si sviluppa al margine di fatti concreti e di realtà controllabili. Anche gli slogan che l’accompagnano sono frasi passepartout, per lo più così ripetitive che, per intenderci, gratificano gli indignati senza far fare un passo avanti alla situazione reale che li avrebbe provocati.
L’alternativa a questo tipo di indignazione sterile nel suo accanirsi, non è la rassegnazione, quasi uno stato di impotenza permanente. È piuttosto l’indignazione virtuosa di chi è disposto a fare la coraggiosa scelta di P. Freire: «Non unirò la mia voce a quella di chi, parlando di pace, chiede agli oppressi, ai poveracci del mondo, di rassegnarsi – ha scritto il pedagogista brasiliano –. Parlo della resistenza, dell’indignazione, della “giusta collera” di chi viene tradito e di chi viene ingannato. Parlo del loro diritto e del loro dovere di ribellarsi contro le trasgressioni etiche di cui sono vittime ogni volta più tormentate» (La pedagogia dell’autonomia).

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