Fascino

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Negli anni 1934-1944, la parola “Fascino” apparve come titolo di un dramma scritto da Keith Winter, e di due film, diretti rispettivamente da G. Solito e Ch. Vidor. Non saprei se quei titoli siano sufficienti a dare una idea compiuta della parola, dal momento che vedono solo il lato insidioso del fascino.
Un punto di partenza sicuramente più efficace per introdursi nel campo semantico della parola fascino è quanto Diotima dice a Socrate nel Simposio di Platone. Parlando dell’uomo «che ha imparato a contemplare l’infinito universo della bellezza», la sacerdotessa dei culti misterici afferma: «… le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l’amore per il sapere» (210d). Ci attestiamo così lontano, molto lontano, da quanto si scrive del fascino su riviste patinate, dove è impropriamente ridotto a sinonimo di seduzione o legato solo alla bellezza fisica.
Per Platone, il fascino è espressione di una misteriosa sicurezza, che attiene più all’interiorità e all’intelligenza che alla fisicità. Anche se questa – attraverso gesti, sguardi, sorrisi e parole – contribuisce a risvegliare e provocare partecipazione di grande intensità emotiva. È questo il significato di “fascino” che fa suo anche Albert Camus, considerandolo «quella cosa per cui ti senti rispondere ‘sì’ senza aver posto alcuna domanda precisa».
Ma non è stato sempre così. Fino al Cinque-Seicento, la parola fascino si portava cucito addosso il significato di influsso malefico e di amuleto che lo scongiura. Con questa accezione è presente nel Liber catullianus (sez. 1 Nugae, Carme 7): «nec … mala fascinare lingua» (né una lingua maligna possa gettare il malocchio). L’evidente significato negativo, attribuito da Catullo al verbo fascinare, traduce il greco baskaìno (maledico, getto il malocchio o un maleficio), dal quale derivano i sostantivi báskanos (iettatore, ammaliatore) e baskanìa (malìa, fascino, incantesimo).
Al di fuori di questo orizzonte semantico, non si capirebbero gli accurati studi di Ernesto De Martino sulla fascinazione, ritenuta dall’antropologo napoletano una condizione psichica di impedimento e di inibizione, un sentirsi privati di autonomia e senza capacità di scelta. Frutto dell’influenza maligna che procede da uno sguardo invidioso (il malocchio, appunto!).
Il superamento della concezione negativa del fascinum conosce la sua definitiva consacrazione – talvolta con qualche equivoco di troppo – nelle lingue moderne. Dal francese charme al tedesco Ausstrahlung. In entrambi i casi, ci si riferisce all’innata delicatezza, alla grazia e comunque a un modo di essere e di rapportarsi personale che supera la mera apparenza, facendo emergere invece l’unicità di gesti, la sensatezza di parole e la profondità di sguardi puliti che attraggono. Insomma, la persona affascinante non è un replicante né uno che programma in maniera ossessiva la conquista degli altri. Questo lo fanno i mediocri. E la mediocrità, si sa, impedisce di sognare e dispiegare le ali per osare il nuovo e l’inedito.

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