Estraneità

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

«Eccomi qua! Inconsapevole e stravolto! Un uomo estraneo tra cose sconosciute. Il mio cuore è pieno di malinconia. Non so più nulla. Cosa devo dire? A cosa servono queste mani che penzolano impotenti? E questi piedi che mi portano come in un sogno?». Essere in un sogno, e non sentirsi nemmeno lì a proprio agio. Così P. Claudel descrive la sensazione di estraneità in Tête d’Or.
Nella parola estraneità – derivata da extraneus – è presente la particella extra, che significa sia «fuori» che «in più».  Essa indica ciò che «sta fuori» rispetto a «ciò che sta dentro». Sul piano esistenziale, l’estraneità è la sensazione vissuta da chi, percependosi fuori dal modo di vivere prevalente nel suo ambiente, si sente «fuori» e «di troppo» rispetto alla retorica avvelenata della normalità. Comodo concetto inventato e usato per lo più come uno strumento oppressivo e coercitivo. Smascherato negli ultimi due secoli a favore di un equilibrato bilanciamento tra il normale e lo straordinario, come scrive la storica Sarah Chaney nel suo recente Sono normale?
La prima possibile forma di estraneità è quella verso sé stessi. Frutto della incapacità di guardarsi dentro e dei mancati Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, come chiama Pirandello le due o più parti che dentro di noi si incontrano e spesso si scontrano.
Vi è poi l’estraneità che si consuma nei confronti degli altri. Frutto della incapacità, talvolta vero e proprio rifiuto, di comprendere ciò che l’altro si porta dentro: la sua storia, i suoi sentimenti e le sue relazioni positive o andate in frantumi. Solo il ritrovarsi, per un motivo o per un altro, nella condizione di chi mi sta di fronte può trasformare l’estraneità in vicinanza.
Si può vivere da estranei anche la propria vita e il proprio contesto. Anzi, qui l’esperienza di estraneità raggiunge il suo apice. Come capita a Gregor, protagonista del racconto kafkiano La metamorfosi. Gregor, oltre a vivere da estraneo il suo corpo trasformato in scarafaggio, vive da estraneo anche lo spazio domestico. Fino provocare violente reazioni nella sorella, nel padre e nella madre, che non reggono di fronte al degrado del figlio.
Si vota all’estraneità soprattutto chi lascia che siano gli altri e i loro giudizi a dettare il ritmo e le scelte della propria vita, finendo intrappolati nel grigiore della quotidianità e negli schemi che impediscono di esprimere la propria unicità.
In chi continua a scommettere sulla propria unicità, la percezione di estraneità può trasformarsi in valore da coltivare. Assume cioè il significato della ricca indigenza (copiosa egestas) di cui parla Agostino o la forza generativa della nobile miseria di Pascal (Grandeur-misère).

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