Esodo

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Il primo passo per gustare la ricchezza semantica che, nel tempo, ha contraddistinto la parola esodo è abbandonare l’uso cronistico che fa parlare impropriamente di «esodo di Ferragosto, di Pasqua o di Natale». Soltanto per riferirsi all’uscita di un gran numero di persone dalle città verso luoghi di vacanza.
Esodo deriva dal greco éxodos che nel teatro greco indicava la parte della tragedia, l’ultima, ed il canto che accompagnava l’uscita del coro dalla scena. I traduttori bilingui, ebrei di lingua greca, lo scelsero come titolo del secondo libro biblico del Pentateuco che narra l’uscita dall’Egitto del loro popolo.
In entrambi i casi, la parola esodo evoca movimento, passaggio, viaggio. Accogliendo in sé sia motivi di sofferenza e di disagio che spingono a mettersi in cammino sia i sentimenti che accompagnano ogni passaggio: dolore per la terra abbandonata, fatica della traversata nel deserto, lacrime, tentazione di voltarsi indietro; ma anche speranze che sbocciano e voglia di liberazione, che rigenerano il «piacer figlio d’affanni» (Leopardi).
Tra il significato che l’esodo ha avuto per il popolo d’Israele e l’esodo divenuto esperienza chiave e metafora della vita di ogni persona, c’è di mezzo il ricorso fatto al termine esodo in alcuni momenti storici particolari. La cultura anglosassone, ad esempio, vi ha fatto ricorso per narrare l’insediamento dei Puritani sull’altra sponda dell’Atlantico; ci fu poi l’esodo di milioni di irlandesi verso gli Stati Uniti negli anni 1846-47, e l’exode di migliaia di francesi, e non solo, dinanzi all’invasore nazista.
Questi ed altri riferimenti hanno legittimato il significato tuttora riconosciuto alla parola esodo. Ricollegandoci al popolo d’Israele, che la tradizione cristiana rivive celebrando il mistero pasquale della croce e risurrezione del Signore, l’esodo non è solo l’insieme di eventi storici o evocazione del passaggio da una situazione di schiavitù personale o comunitaria ad un’altra di libertà. L’esodo è tutto questo, ma è cammino verso una condizione di libertà interiore, indispensabile per vivere la comunione con Dio e il prossimo, per il credente, e di relazioni nuove, luminose e significative, per tutti.
L’esperienza esodale, personale o comunitaria – lo confermano ogni giorno le vittime che tentano nuovi passaggi – «dà da pensare» (P. Ricoeur) perché comunque segnata da prove. Se ne esce accettandole, e accettandone le ferite sanguinanti, oppure la traversata del deserto – di ogni deserto che prima o poi tutti incontriamo – diventa insostenibile, allontanando i frutti del passaggio, in ebraico Pesach (Pasqua).

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