Emergenza

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Emergenza. Proviamo a prescindere dalla pandemia, perché la parola emergenza era già entrata prepotentemente a far parte del cliché linguistico. Da anni si parla di emergenza di ogni campo: traffico, immigrati, casa, salute, occupazione, rifiuti, educazione. E non solo. Sembra essersi ridotta o essere scomparsa del tutto la capacità di distinguere tra ciò che presenta i caratteri dell’emergenza e i problemi reali, gravi ma gestibili con l’impegno di ognuno e l’investimento di risorse adeguate. Tutto, con la complicità del mondo mediatico e quello politico, si presenta o viene presentato come emergenza, intesa come momento particolarmente critico, bisognoso di interventi immediati, (commissari) straordinari e risolutivi. Col pericolo che, quando in ambito socio-politico viene dichiarato lo stato di emergenza totale, a niente in particolare viene riconosciuta priorità, e nessuno si sente interpellato in maniera stringente. Anzi, le vere o presunte emergenze diventano strumento nelle mani di chi, a partire da esse, cerca solo consensi.
Ci conferma il pericolo di confusione l’origine etimologica della parola emergenza, che va trovata nel verbo latino emergere – composto da ex (fuori) e mergere (affondare) – col significato di venire a galla, innalzarsi, sorgere, mettersi in luce. Riferito alla realtà complessiva e quindi a fenomeni naturali, sociali o psicologici.
Anche per le discipline filosofiche e per le scienze umane, la parola emergenza continua a indicare la gravità di una situazione, a seguito dell’improvvisa sproporzione tra un forte bisogno di risposte eccezionali e il limite delle risorse disponibili, con la conseguente consapevolezza di non poterne disporre a sufficienza. Esse fanno però un passo avanti. Restituiscono alla parola emergenza un significato più ampio, riscattandola dall’incombente pericolo di essere ridotta a cliché poco nobile sulla bocca dell’imbonitore di turno o di mercanti della paura, sempre pronti a costruire le loro fortune su disastri reali e su emergenze presunte.
Un esempio è il saggio Emergenza, scritto qualche anno fa dal filosofo M. Ferraris. Qui la parola, e soprattutto l’esperienza dell’emergenza, è vista come un appello a considerare, al di là di ingiustificate pretese prometeiche, chi siamo davvero noi e quale deve essere, conseguentemente, il nostro rapporto con la realtà. Quando l’emergenza si trasforma in stress personale o collettivo, vuol dire che abbiamo dimenticato che la realtà non coincide con il nostro pensiero, che non tutto dipende da noi e che noi siamo parte del mondo e non padroni di esso.
L’emergenza ci pone di fronte, talvolta in modo violento oltre che imprevisto, a un mondo reale (non solo materiale) che non si lascia racchiudere nella nostra capacità di programmazione. Le emergenze sono segnali di qualcosa di nuovo o di diverso che cerca di farsi strada e domanda accoglienza o comunque risposte da parte nostra. Le emergenze sono segnali che richiamano i più disponibili a riconoscere – mentre lo impongono ai più restii – il recupero di un sano realismo, fatto di umiltà, di resilienza e di coraggiosa responsabilità.

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