Dubbio

Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole

Vi sono esperienze, ma anche manifestazioni dell’arte, della letteratura e della filosofia che contribuiscono a mettere ordine nella antinomia tra il fascino del dubbio e la sua demonizzazione. antinomia che non risparmia le scelte personali. Desiderosi come siamo di andare oltre il già detto o il già visto, ma bisognosi anche di sicurezze. Insoddisfatti delle proposte e delle risposte ereditate e disposti a percorrere sentieri inediti. Pur di raggiungere un equilibrio interiore e, con esso, la consapevolezza di poter esercitare un sano protagonismo nella nostra storia personale.
In gioco è, in fondo, la verità. Anche e soprattutto quella che riguarda ciascuno di noi. Una verità che è tale solo se lascia spazio al dubbio nella ricerca, alimenta la passione e la sana inquietudine, e rompe l’assedio prevaricatore della chiacchiera. Senza comunque darti la sicurezza di essere arrivato e di non avere bisogno di fare qualche altro passo in avanti. Sì, perché verità e sicurezza non coincidono. Ed è proprio in questo spazio che si inserisce la condizione mentale del dubbio. Parola da ricondursi alla radice sanscrita dva o dvi (due), da cui deriva il verbo greco δοιάζειν (dubitare) e il latino dubium.
Socrate è stato il primo a inondare di dubbi le certezze di quanti amavano presentarsi come i sapienti del tempo. Anticipando quanto, con sarcasmo, ebbe a scrivere poi Voltaire: «Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola. Solo gli stupidi sono sicuri di ciò che dicono». Sant’Agostino ha contribuito a ridimensionare la pretesa dello scetticismo platonico e di Pirrone di Eliade. Mentre, per questi, il dubbio si trasforma in noncuranza assoluta della verità, per l’Autore delle Confessioni, il dubbio è una tappa obbligata sulla strada che porta alla verità. Seguito in questo dal Leopardi dello Zibaldone, per il quale «piccolissimo è quello spirito che non è capace o è difficile al dubbio». Cartesio, Hume e Kant, prima, e Husserl, dopo, hanno segnato con chiarezza lo spartiacque tra il dubbio positivo, che nulla ha a che vedere col soggettivismo ed il relativismo, e il dubbio patologico. A differenza del primo, questo costituisce alibi per l’immobilismo amletico e seppellisce ogni sana intraprendenza, sotto il velo protettivo di un comodo fatalismo.
Quando l’arte ha voluto dare un volto al dubbio e raccontarne le laceranti emozioni, è ricorso alla figura evangelica di Tommaso (Gv 20,19-31). Lo ha fatto con Caravaggio (L’incredulità di san Tommaso) o attraverso una scultura del Verrocchio. In quest’ultima colpisce un particolare: la mano di Tommaso non tocca la ferita di Gesù Risorto, che ha preso sul serio il dubbio di Tommaso. Lo spazio tra la mano e la ferita è quasi un voler lasciare aperta la porta al dubbio, che può tornare in un uomo che fa fatica a passare oltre e a dimenticare quello che è capitato al Maestro, sulla cui parola aveva scommesso tutta la sua vita.

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