Distrazione

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Chi ha visitato il medioevale Convento dos Capuchos di Sintra, in Portogallo, o le austere e isolate celle dei Monasteri della Cappadocia, in Turchia, può essere indotto a pensare si trattasse di luoghi inaccessibili – oltre che a persone estranee – alla distrazione.
Eppure le pagine più intense sulla distrazione sono state scritte dai monaci dei primi secoli del Cristianesimo. In nessuna di esse è possibile incontrare parole compiacenti o di moderata comprensione nei confronti di questo meccanismo della mente e dell’animo umano.
Evagrio Pontico, monaco del IV secolo, ammonisce con severità i confratelli: «Se il tuo intelletto si distrae proprio nel tempo della preghiera, ciò vuol dire che esso non prega ancora da monaco, ma continua a essere mondano, volto ad abbellire la tenda esteriore» (De oratione, 43).
Sulla distrazione, il monaco morto in una zona a ovest del Nilo, torna in Gli otto spiriti malvagi. Qui, il superamento della distrazione è collocato – come il discorso dei vizi e delle passioni – all’interno di un percorso di affrancamento del monaco. Combattere la distrazione, insomma, non è fine a sé stesso. è esercizio di libertà dalla tentazione di «abbellire la tenda esteriore». Quindi, si tratta, non solo di cercare instancabilmente l’unione con Dio, ma anche di raggiungere una reale libertà interiore.
In questo, sembra di incontrare la severa convinzione espressa da I. Kant, nella sua Antropologia dal punto di vista pragmatico (I, 47). Per il filosofo di  Königsberg, l’esser sempre distratti dà all’uomo l’apparenza di un sognatore e lo rende inutile alla società.
Ma è lo stesso filosofo tedesco ad aprire, con molto buon senso, un varco prezioso per evitare che la fatica necessaria per allontanare ossessivamente da sé ogni distrazione degeneri in follia. Soprattutto quando si rinunzia a staccare, di tanto in tanto, il pensiero dal medesimo oggetto, dalla stessa idea o, peggio, dal pensiero di sé.
Quella che chiamiamo distrazione è, per Pascal, divertissement: «la maggiore delle nostre miserie» (Pensieri, 171). A differenza di accreditati Maestri dello spirito, Pascal considera sempre volontario l’atto di “distrarsi”. Tentativo dell’uomo di allontanarsi dalla propria condizione di debolezza e di fragilità, disperdendosi in infinite attività che lo illudono di inseguire e conquistare la felicità.
Eppure, essere distratto, etimologicamente significa essere tratto via con forza dall’attenzione verso qualcuno o qualcosa. Per questo, sono in tanti a raccomandare di non demonizzare eccessivamente la distrazione per non mortificare la creatività e aprire varchi imprevisti per risolvere problemi e coltivare emozioni, votati altrimenti alla morte.

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