Ferita. Curare il trauma e ripararlo con l’ oro

Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Ferita –  L’ apparenza e la tensione verso la perfezione assoluta rendono normalmente inaccettabile una ferita. Eppure, anche se «verso sera ti parrà di aver sognato la vita, la stanchezza e le ferite ti diranno che avrai proprio vissuto» (N. Salvaneschi).
O, come scrive Oscar Wilde, «le ferite ravvivano il cuore». Nonostante la cultura occidentale sembri fortemente segnata dalla convinzione che la ferita, anche se accettata, vada cancellata il più presto possibile, resta vero che «tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo» (I. Calvino).
Può trattarsi di una ferita fisica o di una “ferita dell’anima”; uno di quei dolori silenziosi che ciascuno si porta dentro e che, al pari delle ferite evidenti, sono altrettanto scomodi sebbene invisibili, altrettanto dolorosi sebbene ricoperti. In siciliano – ma con varianti poco vistose anche in altri dialetti – un vaso rotto si dice ciaccato. È un modo per riferirsi all’ essere colpito, all’ aver perso l’ integrità. Applicato alla persona vuol dire ritrovarsi “senza forze” e fortemente compromesso a causa di una ferita. In questo caso soprattutto vale l’ ammonimento di P. Coelho: «non permettere alle tue ferite di trasformarti in qualcuno che non sei». In alcune culture orientali, quando un oggetto in ceramica si rompe, lo si ripara con l’ oro, poiché si è convinti che un vaso rotto possa diventare più bello di quanto non lo fosse in origine. In Giappone per riparare i vasi di ceramica si usa la tecnica del Kintsugi (che vuol dire letteralmente “riparare con l’ oro”), che prevede di incollare i frammenti rotti e di spolverare le crepe visibili con polvere d’ oro. L’ esito finale è un vaso con striature d’ oro che lo rendono nuovo, diverso, unico. Una causa accidentale e/o traumatica può portare alla rottura del vaso, ma la tecnica di riparazione, che valorizza le crepe e non le nasconde, può renderlo ancora più bello e prezioso.
Come le stelle che rendono più bello e prezioso il cielo, se è vero che «le stelle sono le cicatrici dell’universo» (R. Maye). Le crepe del vaso, come le nostre rughe o le ferite fisiche e dell’ anima, se da un lato non vanno cercate con atteggiamenti masochistici o con fare stupidamente spavaldo, dall’altro non dovrebbero essere nascoste né mimetizzate. Dare valore agli effetti di un dolore (fisico e non), partire da esso per rinascere più belli e più forti anche se non perfettamente integri, è l’ unico modo di ricomporre la nostra personale armonia, fisica e mentale. Il dolore dovuto a una ferita non è dolore sterile del quale vergognarsi. Esso fa parte della storia personale di ciascuno di noi e ha un significato. La sua accettazione porta alla rimarginazione della ferita che può diventare punto di partenza per innescare processi di rigenerazione e di rinascita del corpo e di ripresa interiore trasformando la nostra storia e rendendoci persone nuove. «Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici» (K. Gibran).

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