Bisogna costruire ponti più che muri

A volte può capitare – e a me è capitato proprio in questi giorni – che chi frequenta, per un motivo o per un altro, “confini” di varia natura venga raggiunto piuttosto che raggiungere quei confini, ricchi di testimonianze e segnati da presenze significative.

Una vera ricchezza che voglio condividere con voi e che mi è venuta dalla visita del Vescovo di Amadya e dall’incontro con Padre Jalal Yako. Se vi dico da dove vengono questi due uomini, capite subito perché non potevo non ricordarli in questa mia rubrica settimanale. Rabban Al Qas è il Vescovo di una diocesi (Amadya) collocata al Nord dell’Iraq, che accoglie migliaia di profughi cristiani, Yazidi e di altre minoranze costrette a lasciare le loro case per sfuggire alla violenza cieca e assurda dell’Isis. Padre Jalal invece è un prete Rogazionista; appartiene cioè a una Congregazione religiosa nata a Messina, in una delle zone allora più degradate e malsane della città. A Jalal è affidata la responsabilità di uno dei campi profughi di Ankawa (Erbil); il più difficile in assoluto perché è il campo per il quale non sempre ci sono e mai bastano le attenzioni e le risorse necessarie per rispondere ai bisogni primari sempre crescenti . A cominciare dai bagni. Incontrare ed ascoltare questi due uomini ha fatto aumentare in me il disappunto per l’indifferenza verso il dramma dei profughi denunziata ancora una volta da papa Francesco nella sua recente visita a Lesbo, in Grecia. Questi due uomini si portano dentro, e contemporaneamente vive, la disperazione dei profughi e la loro speranza di tornare nella Piana di Ninive dalla quale gran parte di essi proviene. Entrambi mi hanno più volte confessato comunque di essere consapevoli che questo ritorno non è affatto vicino. Frattanto… c’è un tempo da riempire, una vita da non far morire, una speranza da alimentare. «È difficile, mi ha detto uno di loro! È difficile provvedere a un’accoglienza decorosa per queste famiglie e rispettare il desiderio di considerare “provvisoria” quell’accoglienza. Può sembrare paradossale, ma noi abbiamo rinunziato ad allestire un vero e proprio villaggio attrezzato per i profughi perché loro potrebbero vederlo come un invito a rassegnarsi e arrendersi alla loro sorte di profughi». (testo completo)

Il Sole 24 Ore – Editoriali e commenti / Testimonianze dai confini – 23 aprile 2016 – Pagina 22

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