Accoglienza

Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Accoglienza – La parola accoglienza deriva dal verbo latino accolligere, composto dalle particelle a – co e dal verbo lègere (raccogliere, mettere insieme, radunare). La particella a implica la vicinanza o, meglio, il movimento verso l’altro, non solo e non necessariamente in senso fisico, per condividere qualcosa (l’abitazione, il tempo, lo spazio, il denaro, il lavoro, eccetera); e, facendo questo, (con) legarsi accorciando le distanze, mettendosi accanto con pari dignità con chi ti sta vicino e davanti. Non c’è accoglienza quindi senza relazione con l’altro e senza apertura all’altro. Senza riconoscerlo nella sua particolarità.

L’accoglienza è altro ed è più dell’ospitalità. Si può essere ospitali, ma non accoglienti. L’accoglienza presuppone l’ospitalità, ovvero la disponibilità a condividere vitto e alloggio con altri, ma non si riduce a essa. L’accoglienza mi spinge a farmi carico del mondo dell’altro: cultura, religione, appartenenza, storia. Ma anche mettendolo in condizione di conoscere ed accogliere la mia cultura, religione, appartenenza e storia. E, da questa reciprocità, far scaturire doveri e diritti.

Sta qui la fatica dell’accoglienza che, quindi, non è mai un soave duetto; esige invece il mettersi in gioco e mettere in gioco le proprie certezze e comodità. Vuol dire abbracciare le incertezze e le scomodità dell’altro. Accoglienza vuol dire, in una parola, costruire ponti che richiedono un elevato sforzo… ingegneristico. I ponti devono stare in piedi e in equilibrio. Non devono crollare al minimo scossone emotivo.

Devono mettere in comunicazione due sponde, due persone o due gruppi che potrebbero anche avere posizioni opposte su questioni importanti. I ponti devono essere sufficientemente alti per non essere travolti ed abbattuti dalle valanghe dei pregiudizi e delle falsità. Paradossalmente è più facile capire l’accoglienza (non necessariamente praticarla) quando l’altro è un profugo o un migrante, di quanto non possa riuscirci di farlo nei confronti di chi condivide con noi lo stesso tetto e la stessa mensa. Qui può moltiplicarsi e di fatto si moltiplica la fatica dell’accoglienza intesa come accompagnamento paziente, tutela delle fragilità più o meno vistose e promozione di percorsi di reciprocità attraverso la conoscenza e l’assunzione di responsabilità.

Chi decide di accogliere decide di andare oltre i confini delle proprie conoscenze e delle consuete sensibilità. Decidere di aprire cuore e intelligenza prima che le proprie braccia all’altro e al diverso richiede profonda interiorità coltivata e praticata. Non si improvvisa e non si può imporre. La si può però testimoniare. Accogliere

responsabilmente è ginnastica quotidiana che aiuta a trasformare la mancanza in presenza, la lontananza in prossimità e la fatica, a volte, in gioia condivisa.

» Accoglienza. Aprire cuori e lanciare ponti

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