Accusa

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Sono circa dieci i termini ai quali il greco antico ricorre per rendere l’articolato senso della parola accusa. Ognuno di essi sottolinea l’aspetto specifico di una pratica – fatta di parole e di gesti (come il puntare il dito) – che purtroppo segna tanta parte delle relazioni tra persone e tra istituzioni. Il mondo greco ha inventato perfino una figura ben precisa, ridicolizzata nella Commedia: il sicofante, accusatore di mestiere, in cambio di denaro.
Per lo più, a chi accusa manca la capacità interiore per mettere argine a meccanismi di difesa deresponsabilizzanti. Chi accusa ha sempre lo sguardo rivolto all’esterno. Dal latino ad-causare, accusare vuol dire letteralmente attribuire ad altri la causa di ciò che è ritenuto negativo per sé o per il contesto nel quale si è inseriti.
Nella letteratura greca e nel greco biblico, i termini più usati per rendere il senso dell’accusa sono kategorìa e aitìasis, con i loro derivati. Il primo compare, ad esempio, nella difesa che fa di sé Socrate nella Apologia. Rivolgendosi ai giudici, dice: «Che cosa voi, o uomini ateniesi, abbiate provato per mano dei miei accusatori (upò emon kategoron), non lo so». Con lo stesso termine greco nelle pagine neotestamentarie si parla di accusa, accusati e accusatori. Nel Vangelo di Giovanni, ad esempio, Pilato chiede: «Quale accusa (kategoria) muovete a quest’uomo?».
E poi, non c’è bisogno di avere un’attitudine penitenziale o vagamente rinunciataria per condividere la liberante riflessione tratta dall’Enchiridion (5) di Epitteto, oggetto di un’accurata traduzione anche da parte di Leopardi. Il noto stoico, di epoca romana, raccomanda che «[…] quando subiamo un impedimento o siamo turbati o afflitti, non dobbiamo mai accusare nessun altro (allon aitiòmeta) tranne noi stessi, ossia i nostri giudizi. Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l’ha intrapresa incolpa se stesso; chi l’ha completata non incolpa né gli altri né se stesso».
Quasi a dirci che, alla base di ogni accusa, vi è sempre mancanza di saggezza. E che l’unica strada per evitare che questo meccanismo condizioni le nostre relazioni è imparare a riconoscere la propria parte di responsabilità. La stessa alla quale Gesù richiama scribi e farisei che conducono davanti a lui una donna, sorpresa in adulterio «per avere di che accusarlo (kategorèin)». Le accuse rivolte alla donna non bastano per arruolare Gesù tra gli accusatori. E siccome l’accusa immette sempre in un vicolo cieco, Gesù indica un’alternativa: invita gli accusatori a un atteggiamento di lealtà, a partire da uno sguardo interiore su se stessi. Propone alla donna un nuovo stile di vita.

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