Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Una sorta di sincope linguistico-morfologica ha consegnato al nostro vocabolario la parola donna. Vi si è giunti partendo dal latino domina, passando per domna e arrivando a donna, per assimilazione di mn in nn. Passaggi nei quali non sono andati perduti i significati racchiusi nella parola latina domina che, come il maschile dominus, deriva da domus (casa): entrambi, alla lettera, «colei/colui di casa». Senza definizione di ruoli e gerarchie. Ciò che è avvenuto dopo in campo semantico è esclusivamente frutto di modelli culturali, religiosi e politici dominanti.
Di sicuro, grande è stata e continua a essere la fatica di liberare la parola donna dalla disinvoltura – talvolta, vera e propria condiscendente ipocrisia! – con la quale, in alcuni ambiti, compreso quello religioso, si sono susseguiti i contenuti più contraddittori che hanno accompagnato questa parola: da una identificazione della donna con ruoli ben definiti, dipendenti e per lo più di servizio, alla ambigua esaltazione della mulier fortis e della mulieris dignitas. Pericoloso equivoco, per cui la donna forte sarebbe la donna virile, e comunque quella che riesce a mettersi sullo stesso piano dell’uomo. Ma… le copie sono inautentiche per definizione.
Donna forte è colei che, coltivando la differenza, mira alla massima perfezione della femminilità, senza volerla «afferrare alla gola, per cercare di strangolarla con dita virtuose» (A. Pronzato). Semmai rinunziando all’«eterno femminino che ci tira in alto», invocato da Goethe nel finale del Faust. Quell’eterno femminino che non allontana la donna dalla storia, ma gliela fa abitare da signora/padrona, domina appunto. Figura attiva e potente, in un ruolo generativo, familiare e ispiratore.
È così che Alda Merini vede Miriàm/Maria, come la chiama Erri de Luca nel suo straordinario In nome della Madre. «Io non fui originata / ma balzai prepotente / dalle trame del buio / per allacciarmi ad ogni confusione». Parole che la poetessa mette sulle labbra di Miriàm/Maria, poco dopo le prime battute della sua raccolta Magnificat ispirata al vangelo di Luca 1,46-55: «un canto di inaudita libertà», secondo la teologa Ivana Ceresa. Restituendole la consapevolezza di essere una donna chiamata a partecipare a una storia nuova, pur fortemente segnata da timore e speranza, dubbio e fiducia. Le parole del Magnificat – sostiene Michela Murgia nel suo Ave Mary – ci consegnano in Maria di Nazaret la prima ribelle all’ordine costituito, protagonista di un’esistenza libera da ogni debito. Se non quello nei confronti di Chi «con mani dolcissime mi ha cresciuta e lavata / fino a che, diventata adolescente, […] mi ha sciolto i capelli» (A. Merini).