Oggi la liturgia della Parola ci parla di concretezza e di prossimità nella nostra vita di fede. Nel Vangelo, è questo il taglio del dialogo tra Gesù e il dottore della legge. La sua domanda “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?) – che non fatichiamo a fare pienamente nostra – è molto più concreta di quanto possa apparire! Il senso della richiesta è: “Maestro, che devo fare per essere (al di là delle etichette) un uomo vivo, vero, la cui vita abbia un senso e una prospettiva definitiva?”. Gesù non risponde enunciando principi astratti, ma con un racconto, contrassegnato da gesti (verbi) capaci di rendere la vita di un uomo vera, viva, sensata. “Passandogli accanto, vide… ebbe compassione… gli si fece vicino, gli fasciò le ferite… versandovi olio e vino… lo caricò… lo portò in albergo… si prese cura di lui… tirò fuori due denari e li diede all’albergatore”. Gesti che, però, non appartengono a tutti i protagonisti del racconto. Alcuni di loro, infatti, restano prigionieri dei loro schemi culturali e religiosi.
Quanti, anche oggi, pensano di cambiare il mondo, limitandosi a gridare la propria indignazione per i peccati… degli altri! Come il sacerdote e il levita (un aspirante sacerdote), intenti a recarsi al tempio. Di fronte al malcapitato (percosso, derubato di tutto, ridotto in fin di vita) essi passano oltre, per non contaminarsi.
Non passa oltre invece un samaritano – diremmo, oggi, “un extracomunitario” – che Gesù provocatoriamente propone come modello. Questo extracomunitario, evidentemente, comprende bene cosa rende un uomo vivo, vero e sensato.
Dinanzi a “un uomo” – come sottolinea Luca -, senza un nome né altra identità, ma del quale si dice la condizione (derubato, umiliato, percosso), il samaritano comincia a mettere in pratica i gesti del “farsi prossimo”: a contarle, sono dieci azioni, quasi un nuovo decalogo. E lo fa nei confronti di un uomo senza identità, perché l’umiliazione, le percosse, la perdita di dignità non hanno nazione, né colore della pelle, né status giuridico o sociale: fanno male e basta!
Di fronte a quell’uomo, dunque, il samaritano non “passa oltre”, ma si fa carico delle sue difficoltà. Passano oltre, invece, il sacerdote e il levita. “Andando oltre” – cioè non sporcandosi
le mani e non lasciandosi coinvolgere – essi pensano di immergersi nella “spiritualità” (il tempio).
A scanso di equivoci e con buona pace di una spiritualità di comodo, fondata sull’ “andare oltre”, ricordiamoci che “oltre” il prossimo concreto non c’è lo spirito, c’è il nulla! E chi pensa di vivere così la sua spiritualità, rammenti che “andare oltre” è l’esatto contrario del “farsi prossimo (vicino)”.
Impariamo, dunque, anche noi da Gesù a non “andare oltre” e a “farci prossimo” di chi necessita del nostro amore.

» XV Domenica del Tempo Ordinario, 14 luglio 2019