“Non si può parlare di Dio rimanendo uguali”, osservava con acutezza Roberto Benigni commentando in televisione i Dieci Comandamenti: “Gli idoli addormentano – aggiungeva – mentre il Divino inquieta, ti chiede di cambiare, di rinnovarti sempre; Dio è un inno alla vita, vuole entrare non nella nostra mente, ma nei nostri cuori”.
Quasi a volerci trattenere dal rischio di uscire troppo in fretta da questo orizzonte, la liturgia ci ripropone il brano evangelico che abbiamo ascoltato il giorno di Natale. È un invito a tenere fisso lo sguardo sul presepe per far nostro un annuncio che, passata la festa, non può essere destinato a finire in soffitta fino al prossimo anno, come capita ai vestiti della passata stagione. “Se Dio fosse nato anche mille volte a Betlemme – avverte Sant’Ambrogio – ma non nascesse in te, allora, sarebbe nato invano”. Sostiamo, quindi, ancora davanti alla Grotta per risentire rivolto a noi il gioioso messaggio degli angeli ai pastori; accogliamo l’annuncio evangelico della Sapienza eterna che si è fatta carne (cf Gv 1, 14), cioè storia, tempo, luogo, persona. Sì, Lui si è fatto vicino, accanto, intimo, al punto di essere dentro di noi pur rimanendo Altro.
A chi permette a Cristo di nascere in sé, a chi abbraccia la sua vita e la sua logica è dato il potere – sottolinea San Giovanni – di diventare figli di Dio (1, 12).
Purtroppo, non possiamo ignorare troppo facilmente anche l’amara costatazione: “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1, 11). Nonostante la decisione di Dio di camminare con noi, noi possiamo infatti decretarne l’esilio. Ci sono tanti modi per farlo, anche nella Chiesa: perché l’accoglienza è molto più di un vago sentimento di apertura al Signore; è fargli spazio anche se questo significa far arretrare certe nostre pretese; è fargli piantare la sua tenda in mezzo ai nostri progetti; è lasciarsi disturbare da una presenza che cambia radicalmente le cose. Diversamente, corriamo il rischio di rimanere a metà strada: non si è estranei al suo messaggio, ma non lo si prende nemmeno troppo sul serio, quasi fosse una proposta tra le altre.
Quando, dunque, diventiamo davvero figli di Dio? Quali sono i segni di questa appartenenza? Come possiamo dire di aver accolto veramente Gesù in noi? Siamo chiamati ad andare oltre l’atteggiamento dell’emozione e dello stupore per verificare nella quotidianità il grado di ospitalità effettivamente riservata a quel Bambino. La risposta può darla soltanto la nostra vita, nella misura in cui costruisce relazioni leali e vere, e genera – con parole responsabili e con gesti concreti – condizioni di riconciliazione e di pace, ridona speranza facendosi prossima alle condizioni dei fratelli, soprattutto dei più poveri.
Allora, e solo allora, saremo uomini davvero.