L’austera solennità dell’azione liturgica non ha bisogno di aggiunte / commenti- soprattutto se smettiamo i panni dei curiosi marginali e facciamo lo sforzo di sentirci coinvolti nella storia e nella passione di Cristo.
C’è un differenza tra le sacre rappresentazioni della passione e la celebrazione liturgica di oggi: Lì i personaggi sono legati dall’inizio alla fine a un ruolo, interpretato più o meno bene!
Se si partecipa intensamente all’azione liturgica non è difficile sentirsi coinvolti nella storia e nell’esperienza dei diversi protagonisti.
Nella storia del nostro rapporto con Cristo può capitarci di vivere talvolta come Giuda, l’amico che tradisce; altre volte come Pietro, pronto all’entusiasmo, ma altrettanto disposto a rinnegare. Talvolta come Pietro, senza alcuna voglia di assumerci responsabilità; altre volte come Giuseppe d’Arimatea, attenti e premurosi, nei confronti di Gesù.
Al centro però delle storie vissute dai protagonisti della Passione c’è Gesù, il Crocifisso. Colui che secondo lo sguardo umano vede come uno sconfitto, si rivela poi come il vero vincitore della morte.
Siamo qui per dirgli che vogliamo essere suoi discepoli, che non vogliamo fuggire né vogliamo rinnegarlo. Sapendo che essere suoi discepoli vuol dire combattere, come Lui, una lotta gioiosa con le armi della carità contro lo strapotere di chi offende la giustizia e la speranza.
Essere i suoi discepoli vuol dire scegliere di schierarsi con gli ultimi, nei quali il maestro si lascia incontrare: nella fame di chi ha fame, nella sete di chi ha sete, nel dolore di chi soffre.
Cristo non gode della nostra sofferenza: dalla croce intende gridarci la forza rivoluzionaria dell’amore, ricordandoci che il cristiano non teme la morte, teme piuttosto lo squallore della vita. Il cristiano non teme la morte, teme piuttosto una vita priva di senso, colma soltanto di cose.
A Gesù crocifisso viene rivolto un invito/sfida: «Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce e ti crederemo».
Gesù da quella croce non è sceso! E noi gli crediamo proprio perché ha scelto di non stupirci scendendo dalla croce. Gli crediamo perché è rimasto lì come tanti uomini e donne che non ce la fanno a lasciare la loro croce di sofferenza e di fatica di vivere. Gli crediamo perché è rimasto lì per dirci quanto lui condivide la nostra sofferenza.
Guardando il Crocifisso capiamo il senso profondo di quanto è scritto nella Lettera agli Ebrei: «Imparò l’obbedienza da ciò che patì, e reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb5,8).
L’obbedienza di Gesù al Padre porta a compimento il progetto di amore del Padre. E, dalla sua obbedienza, noi impariamo cosa concretamente vuol dire a Dio. Vuol dire vivere dentro i fatti, senza tentare fughe, dispense o esoneri, ma con l’impegno serio di rimanere dove i problemi scottano e dove i peccati causano la morte, per metterli nelle mani di Dio.