Conclusa la parentesi giovannea, che ci ha presentato Gesù come “pane di vita”, in questa domenica riprendiamo la lettura del Vangelo di Marco.

Nel brano odierno, Gesù trae spunto dal contesto delle usanze rituali ebraiche del tempo per affrontare un tema essenziale per i credenti: l’autenticità della nostra obbedienza alla Parola, contro ogni “inquinamento” umano o formalismo legalistico.

Nella prima lettura, consegnando al popolo la Legge, Mosè così lo ammonisce: “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo”. Evidentemente ha radici antiche la tentazione di “difendersi” dal senso autentico della Parola, quando essa diventa troppo esigente ai nostri occhi. Una difesa che spesso si serve di una strategia subdola: anziché rifiutare esplicitamente la Parola, preferiamo accoglierla all’apparenza, per poi “addomesticarla” con aggiunte e trasformazioni di origine umana, che finiscono per stravolgerne il vero significato.

Una situazione analoga coinvolge Gesù e i discepoli, accusati dai farisei e dagli scribi di non seguire alla lettera le formalità dei riti religiosi ebraici, secondo la tradizione del tempo. Quanta amarezza nella replica di Gesù: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. L’amarezza di Gesù nasce dalla constatazione di un culto della forma e dell’apparire che, invece di nutrire, corrode ed adultera i rapporti tra l’uomo e Dio e tra uomo e uomo.

Chissà se il nostro modo di vivere l’esperienza religiosa non meriti ancora quel lamento amaro di Gesù! Possiamo dire di essere esenti dal pericolo di essere catturati dalle forme, dimenticando il senso vero e profondo dell’esperienza religiosa? Non c’è niente di più schiavizzante di una falsa religione. E San Giacomo, nella seconda lettura, ci dice come deve essere la vera religione: “soccorrere gli orfani e le vedove”. La vera religione, infatti, conduce con forza a farsi carico di tutto ciò di cui Dio stesso si fa carico. Per questo, una comunità che celebra è una comunità che si sente spinta per strada dal Signore, per far sentire a tutti concretamente la vicinanza e la protezione del Signore che ha celebrato.

Dio, dunque, si aspetta che accogliamo con docilità la Parola seminata in noi, ricordando che questo non ha niente a che vedere con certe inconcludenti sdolcinature che accompagnano alcuni nostri atti di culto, né con la presunzione di essere sempre e comunque dalla parte del giusto.

Ci conceda il Signore di poterlo sempre onorare “col cuore”, testimoniando il nostro amore per Lui nelle scelte concrete per il bene dei fratelli.

XXII domenica del Tempo Ordinario_2 settembre 2018