Ger 1,4-5.17-19; 1 Cor,1, 26-30; Gv 15,12-17

Sentiamo spesso, nella Sacra Scrittura, parlare di «profeti» e di «profezia». Noi stessi, con il Battesimo, veniamo resi «sacerdoti», «re» e «profeti».
Ma cosa vuol dire per il cristiano, oggi, essere «profeta» e «vivere in maniera profetica» la propria consacrazione?
Una prima risposta ce la dà la prima lettura presentandoci la storia di Geremia, profeta al tempo delle invasioni babilonesi.
Geremia viene chiamato – dopo aver vissuto un’intensa esperienza di incontro e di ascolto del Signore – a farsi interprete ed a far conoscere le intenzioni di Dio per il suo popolo in un particolare momento storico.

Quattro verbi caratterizzano la chiamata di Geremia ad essere profeta. Sono gli stessi verbi che ogni credente deve imparare a coniugare nella propria vita se vuole che la sua non sia una vita banale e ripetitiva, ma che sia invece una vita capace di profezia.

Ecco i quattro verbi che fanno di Geremia un profeta:

  1. «… ti ho conosciuto».

Il Signore chiama Geremia sulla base di una relazione profonda che ha stabilito con lui. A partire da questa relazione profonda lo investe di un compito, gli affida una responsabilità e gli assicura la sua vicinanza. Faccio un po’ fatica a credere alla chiamata di coloro (anche istituzioni religiose) che maturano e conservano vocazione e carismi al di fuori di un rapporto costante e continuo con il Signore e con la sua Parola. Prima o poi, dal modo di agire e di parlare si capisce che ci si trova dinanzi a persone che si sono autochiamate ed autoproclamate “profeti”.

  1. «… ti ho consacrato» (letteralmente “ti ho messo da parte”).

La “chiamata” e la “consacrazione” non fanno del chiamato un privilegiato, ma lo spingono a uscire dall’anonimato, lo spingono a dare un senso pieno alla sua vita.

  1. «… ti ho stabilito profeta delle nazioni».

Il fine ultimo della conoscenza/relazione con Dio e dell’essere da Lui “separati”/messi da parte è perché chi è chiamato è “destinato agli altri” … è mandato ad essere testimone.

  1. Il quarto verbo è un invito perentorio: «Stringi la veste ai fianchi, alzati …». Gesto che ha diversi significati: si cingono i fianchi per lavorare, per mettersi in viaggio, per portare un annuncio, ma anche per affrontare un combattimento.

Nel fare suoi, con delle scelte concrete, questi verbi, il profeta Geremia non è solo: «io sono con te per salvarti!». Una presenza/vicinanza, quella del Signore, che non dispensa il profeta Geremia dalla fatica, dal rifiuto e dalla sconfitta.
Sappiamo infatti che i contemporanei di Geremia hanno reagito perseguitandolo.
Segno che la profezia, quando è autentica, scomoda ed invita a scegliere.
Perché? Perché chi vive in maniera autentica la sua missione di profeta è visto come una sfida e una minaccia alle sicurezze su cui poggia il perbenismo religioso e politico.

Il nostro mondo ha bisogno di profeti e di uomini coerenti ed … “esagerati” come Geremia e come Gesù. Esagerati perché liberi. Esagerati perché coscienti di avere Dio dalla loro parte. Esagerati perché aperti ai bisogni degli altri.
Noi credenti veniamo chiamati oggi a esercitare così la nostra profezia, laddove ci troviamo. E non è escluso che l’essere profeti oggi possa provocare il «martirio», non necessariamente quello cruento e violento.
Ci può essere il martirio dell’uomo/donna che in un ambiente di illegalità diffusa si impegna a testimoniare/profetare con la coerenza nell’adempimento del proprio dovere. A costo di essere ritenuto un “ingenuo” e un “sognatore disarmato”.
Ci può essere il martirio del papà/mamma di famiglia che non smettono di tenere aperta una via di dialogo con i propri figli e che, nonostante la fatica che tutto questo comporta, vengono tagliati fuori dagli affetti degli stessi figli.
E, tra le traiettorie nuove ed impegnative che ci vengono indicate dal Vangelo di questa domenica, spicca la richiesta che sta al centro del brano ascoltato:

«Amatevi gli uni gli altri»

Più volte Gesù ha dovuto chiarire chi sono gli altri e chi è l’altro da amare non a parole, ma con i fatti.
L’altro è colui che incontro sulla mia strada e che con il suo volto e con la sua storia mi interroga e mi responsabilizza.
L’altro è colui che incrocio sulla mia strada e che con la sua stessa presenza mi spinge ad uscire dalle mie sicurezze e dai miei interessi.
L’altro non può mai comunque essere colui sul quale io devo guadagnare qualcosa (denaro, stima, carriera).

«Amatevi gli uni gli altri».

Chissà quante volte abbiamo ascoltato questo comando, ma chissà quante volte lo abbiamo in cuor nostro ridimensionato!
«Amatevi gli uni gli altri» è l’invito che Gesù ci rivolge perché noi ci decidiamo a coinvolgere la nostra vita nel destino degli altri.

» LA VERNA (Ar), Professione Solenne, 27 maggio 2017