Oggi, gli Apostoli Pietro e Paolo tornano a sedersi in mezzo a noi, come fecero con le prime comunità, per esortarci ad andare all’origine e al cuore del nostro essere Chiesa, a non rinchiuderci, a non pensare unicamente ai nostri problemi particolari, a non bloccarci in quel ricorrente spirito autoreferenziale che avvelena lo spirito, ma a sentire l’urgenza di uscire ad annunciare il Vangelo.
Abbiamo necessità di riascoltare la voce della loro testimonianza perché forse stiamo nella chiesa senza “essere” chiesa, o perché battezzati da piccoli, o perché si è trovato uno spazio o una funzione più o meno appagante, o, ancora, perché, tutto sommato, al di là di un poco di pratiche, in fondo non ci viene chiesto niente di più.
Siamo veramente chiesa quando, come Pietro, nonostante le nostre debolezze, diremo, con le labbra e con la vita: «Signore tu solo sei il Cristo, tu solo hai parole di vita eterna».
È stato così per Pietro e Paolo.
Il primo fu chiamato da Gesù mentre riassettava le reti sulle rive del mare di Galilea; lo troviamo poi tra i dodici apostoli, con il tipico temperamento d’uomo focoso e sicuro; anche se bastò la voce di una serva per portarlo al tradimento. Il vero Pietro è quello debole che si lascia toccare dallo Spirito di Dio e, primo tra tutti, proclama: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, come riporta il Vangelo annunciato oggi. E il Signore fece di questa debolezza la “pietra” che avrebbe dovuto confermare i fratelli. Su questa “pietra” avrebbe edificato la sua Chiesa.
È stato così per Paolo. Da giovane, lo vediamo accanto a coloro che stanno lapidando Stefano; zelante nel combattere la giovane comunità cristiana. Ma sulla via di Damasco il Signore lo fece cadere dal cavallo delle sue sicurezze e del suo orgoglio, ben più forti e salde del cavallo su cui stava. Trovatosi a terra, nella polvere, alzò gli occhi al cielo e vide il Signore. Come Pietro, dopo il tradimento, anche Paolo si sentì toccare il cuore: non ebbe il dono delle lacrime, ma i suoi occhi rimasero chiusi. Lui, abituato a guidare gli altri, dovette essere afferrato per mano e condotto a Damasco. E lì, con l’aiuto dei fratelli, ascoltò il Vangelo che gli aprì gli occhi e il cuore. E subito, come fece Pietro, iniziò a seguire il Maestro diffondendo il Vangelo in ogni angolo della terra.
L’incontro con la Parola di Gesù, in ogni momento della vita, genera sempre un “subito”, un distacco deciso con il proprio passato per divenire discepoli del Vangelo.
È la storia di Pietro, è la storia di Paolo, ma anche la storia di chiunque vuole seguire Gesù. Non è possibile ascoltare con il cuore la sua parola e restare fermi al proprio posto, bloccati sulle proprie abitudini, sclerotizzati sulle proprie grettezze, saldi nel proprio orgoglio; perché ogni incontro con Lui, è un lasciarsi “afferrare da lui”, è lasciare che Lui entri nella nostra vita e la trasformi: «non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me» dirà S. Paolo.
Saremo capaci di uscire per le strade della nostra città annunciando il vangelo, sapendo che non ci può essere tradimento tanto grande delusione tanto bruciante da non poter essere vinta da dall’amore, «perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano» (Evangelii Gaudium, 278).