“La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita…” (Gb 7, 4.6).
È difficile non rimanere profondamente colpiti da questi versetti di Giobbe, che la liturgia ci propone nella prima lettura di questa domenica. Meditandoli, dietro le parole vi ho ritrovato il volto di tanti ammalati, nonché di persone conosciute nelle quali la stessa voglia di vivere viene meno sotto la durezza della prova. Le parole drammatiche di Giobbe non possono essere archiviate troppo in fretta nemmeno da quanti hanno la grazia della salute. Lasciamole risuonare nel cuore per poter cogliere un riflesso dell’abisso di disperazione che accanto a noi vive chi è nella sofferenza.
Nella solitudine si allungano non soltanto le ombre, ma anche le domande e i dubbi: sulla vita, sugli altri e perfino su Dio.
Che fare? La prima consegna che ci spetta è quella di saper imitatore coloro nel brano evangelico si accostano a Gesù per parlargli della suocera di Pietro: come non vederci la preghiera fervorosa con cui siamo chiamati a far memoria dei nostri ammalati al Signore? Loro, con le loro angosce; la nostra società, con i suoi tormenti e le sue tribolazioni, qualunque ne sia la natura. Sono periferie che non possono essere lasciate deserte: la vitalità di una comunità si misura nella capacità di abitarle con pazienza creativa. Anche a noi è chiesto, innanzitutto, di non restare indifferenti e – per usare ancora l’immagine del Vangelo – di saperci avvicinare alle persone prendendole per mano, come ha fatto Gesù: quindi, senza sostituirci, ma facendoci loro prossimo.
È significativo anche come la guarigione operata da Gesù – il primo miracolo, fatto in favore di una donna – non sia fine a se stessa: “La febbre la lasciò ed ella li serviva” (Mc 1, 31). Colui che è venuto per servire e dare la sua vita comincia così a coinvolgere altri in questa missione, che estende il Regno di Dio. L’autentica liberazione culmina nel servizio, espressione non solo di gratitudine per la guarigione ottenuta, ma riposta con cui la persona risanata fiorisce in pienezza. Mai siamo tanto noi stessi come quando serviamo.
A sera, quindi terminato il riposo del sabato, la casa di Pietro diventa meta del pellegrinaggio di quanti sono in cerca non soltanto di salute, ma anche di senso. E Gesù guarisce, segno della tenerezza e della compassione di Dio, che non si dimentica mai di quanti soffrono. Non a caso il brano evangelico culmina raccontandoci la preghiera mattutina e solitaria di Gesù: è in questa relazione con il Padre che egli trova luce per la sua missione, forza per vincere il male, pace e tenerezza per relazioni che restituiscono l’uomo al suo vero bene. Che valga anche per noi?