Al centro della liturgia di oggi vi è la storia di Sebna – simbolo di chi si oppone ai progetti di Dio favorendone altri di corto respiro- e vi sono due domande attraverso le quali Gesù intende chiedere ai suoi discepoli di coinvolgersi direttamente e seriamente nel rapporto con Lui.
La storia di Sebna sta lì a dirci la premura con la quale Dio regna sul suo popolo dandogli guide capaci di tenere viva la sua Alleanza.
Nei confronti dell’infedeltà di Sebna Dio pronunzia parole piene di indignazione: «Ti toglierò la carica…». É un’indignazione sofferta, ma che nasce dal sentirsi feriti e dal vedere un ideale, che si ama appassionatamente, maltrattato e strumentalizzato.
Quelle parole di indignazione, per quanto sofferta, valgono anche per noi quando con le nostre scelte rompiamo o poniamo ostacoli all’Alleanza tra Dio e noi, tra Dio ed il suo popolo.
Noi siamo cattivi mediatori di quest’Alleanza quando smettiamo di sognare e di spenderci perché i sogni nostri e quelli degli altri diventino realtà.
Siamo cattivi mediatori di quest’Alleanza quando quello che facciamo e diciamo lo attingiamo dalle nostre povere storie spesso compromesse e senza entusiasmo.
Siamo cattivi mediatori di quest’Alleanza – come Sebna – quando sull’impegnativa bellezza della Parola di Dio facciamo prevalere i nostri schemi e le nostre fissazioni.
Rompiamo l’Alleanza con Dio quando non sappiamo riconoscerlo negli ultimi privandoli della nostra vicinanza e quando spendiamo il nostro tempo e le nostre energie per realtà che niente hanno a che fare col Vangelo.
Ma le parole di indignazione pronunziate dal Signore nei confronti di Sebna («Ti toglierò la carica…») veniamo chiamati a pronunziarle con coraggio quando attorno a noi si consumano ambizione, intrighi e tornaconti di ogni genere.
Dobbiamo ricordare però che le parole autentiche di indignazione non sono mai frutto di presunta superiorità o autoproclamata innocenza nei confronti dei mali della storia. Le parole autentiche di indignazione sono quelle che nascono da una fede autentica, quella nella quale siamo e ci sentiamo personalmente coinvolti; quella stessa fede che Gesù domanda ai suoi discepoli nella pagina odierna del Vangelo, al centro del quale vi sono due domande poste da Gesù: «La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo…E voi chi dite che io sia?».
Due osservazioni:
– Le domande sulla consistenza della propria fede Gesù le rivolge ai discepoli mentre si trovano a Cesarea di Filippo, una città nota per essere una «città di frontiera» dal punto di vista culturale, religioso economico, politico. Quindi le domande autentiche sulla fede vengono poste nel bel mezzo della vita. Le domande sulla consistenza e sul senso della nostra fede non possono essere confinate ai margini della vita; devono essere domande capaci di orientare o addirittura di invertire in pieno la nostra storia di uomini e donne credenti.
– «E voi chi dite che io sia?»
La domanda che Gesù pone non sopporta risposte generiche, semmai attinte da testi/ autori di moda. La domanda insistente di Gesù («E voi chi dite che io sia?») è invito pressante ad uscire dall’impersonale, dall’anonimato.
La nostra vita di fede e le espressioni della nostra vita di fede, molto spesso vengono impoverite proprio da questa malattia, la malattia dell’impersonale. Quante volte la stessa Confessione (il Sacramento che deve più di ogni altro vederci impegnati in prima persona) è ridotto a un frutto amaro ed inconcludente della nostra incapacità a lasciarci interrogare personalmente!
– Di fronte alla domanda di Gesù, Pietro attinge la sua risposta all’abisso di sapienza che proviene dallo Spirito.
Come Pietro, alla domanda di Gesù può rispondergli in maniera vera solo chi, almeno una volta, ha pregato più o meno con queste parole:
«Signore, tu per me sei colui in nome del quale non ho approfittato del fratello.
Tu per me sei colui in nome del quale mi sono giocato e continuo giorno per giorno a giocarmi la vita.
Tu per me sei colui in nome del quale ho ricominciato a camminare pur trovandomi a terra.
Tu sei per me colui che mi ha ridato la gioia di ricominciare a camminare perché mi ha teso la mano ed ha curato le mie ferite.
Tu sei per me colui che mi restituisce la gioia di vivere anche dopo aver assaporato l’amarezza del peccato».