La prima reazione, sentendo proclamare il Vangelo di questa domenica, potrebbe provocarci una sorta di allergia. Le sue immagini di pecore e di gregge arrivano in una cultura – la nostra – attraversata dall’ambizione e dalla presunzione di essere unici, differenti, protagonisti che tengono le mani sul timone della propria vita… Il linguaggio di Gesù attinge senz’altro al contesto in cui egli ha svolto la sua predicazione, sui sentieri brulli di una terra assolata; più ancora, mirava a raggiungere in maniera diretta ed efficace i destinatari a cui si rivolgeva e che spesso erano persone semplici e umili del popolo. Prima di prenderne con troppa facilità le distanze, dovremmo forse riconoscere che quelle parole mantengono tutta una loro attualità anche per noi oggi. Anche provandoci, infatti, si stenta non poco a riconoscere nell’umanità che siamo qualcuno che si distingua davvero. Volenti o meno, ci troviamo a respirare tutta la stessa aria e, spesso, finiamo per ritrovarci davvero omologati in un gregge che desidera, usa e consuma le medesime cose. Un discorso analogo vale per i pastori: è un ruolo che rimanda alla responsabilità di chi è chiamato a prendersi cura degli altri e, quindi, del bene comune. A ben vedere, a essere fuori tempo non è tale servizio, ma semmai il modo con cui è svolto, che – nei diversi ambiti della vita comunitaria – ha trasformato il pastore in mercenario, preoccupato semplicemente di sé e del proprio tornaconto. …

IV Domenica di Pasqua, 26 aprile 2015