La prima reazione, sentendo proclamare il Vangelo di questa domenica, potrebbe provocarci una sorta di allergia. Le sue immagini di pecore e di gregge arrivano in una cultura – la nostra – attraversata dall’ambizione e dalla presunzione di essere unici, differenti, protagonisti che tengono le mani sul timone della propria vita… Il linguaggio di Gesù attinge senz’altro al contesto in cui egli ha svolto la sua predicazione, sui sentieri brulli di una terra assolata; più ancora, mirava a raggiungere in maniera diretta ed efficace i destinatari a cui si rivolgeva e che spesso erano persone semplici e umili del popolo. Prima di prenderne con troppa facilità le distanze, dovremmo forse riconoscere che quelle parole mantengono tutta una loro attualità anche per noi oggi. Anche provandoci, infatti, si stenta non poco a riconoscere nell’umanità che siamo qualcuno che si distingua davvero. Volenti o meno, ci troviamo a respirare tutta la stessa aria e, spesso, finiamo per ritrovarci davvero omologati in un gregge che desidera, usa e consuma le medesime cose. Un discorso analogo vale per i pastori: è un ruolo che rimanda alla responsabilità di chi è chiamato a prendersi cura degli altri e, quindi, del bene comune. A ben vedere, a essere fuori tempo non è tale servizio, ma semmai il modo con cui è svolto, che – nei diversi ambiti della vita comunitaria – ha trasformato il pastore in mercenario, preoccupato semplicemente di sé e del proprio tornaconto.
Su questo sfondo, forse apprezziamo ancor più le parole rassicuranti di Gesù: «Io sono il buon pastore, che dà la propria vita per le pecore» (Gv 10, 11); per esprimerci con Pietro, egli è “la pietra, che è stata scartata dai costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo” (At 4, 11): è Colui che ci conosce per nome (cf. Gv 10, 14) e del quale possiamo fidarci fino in fondo, nella convinzione che costruire su di lui significa realizzare una vita buona e piena.
Di lui abbiamo bisogno, perché siamo anche noi come l’infermo guarito di cui parla la pagina degli Atti degli Apostoli: riusciamo a guarire dalle tante forme di malattia che paralizzano – presunzione, pigrizia, confusione, cattiveria… – se accettiamo di mettere responsabilmente la nostra storia nella mani del Signore Risorto: «Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno – afferma Pietro – costui vi sta innanzi risanato» (v. 10).
Lasciamoci guarire da Gesù, che non si stanca di offrire la sua vita per noi, a riprova di quanto siamo preziosi ai suoi occhi. Ascoltiamo la sua parola per seguirlo, ossia per realizzare con lui un rapporto personale. Sarà la via per realizzare veramente la nostra libertà e la nostra dignità, fino ad accettare di assumere la responsabilità di essere pastori di quanti la vita ci ha affidati, accompagnandoli verso una fede consapevole e adulta.