La liturgia della Parola di oggi ruota attorno alle figure del profeta Isaia e di Gesù, entrambi impegnati a correggere una mentalità errata nell’interpretare quella che noi, con un termine non sempre comprensibile nei suoi contenuti concreti, chiamiamo “salvezza”.
La convinzione comune, infatti, in gran parte del popolo di Israele, era che ci si salvava solo perché appartenenti al popolo scelto da Dio.
Ma Isaia fa capire che il progetto di Dio non è per un solo popolo, ma universale: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria”.
Gesù sembra ancor più concreto e più chiaro. Per essere cristiani e dirci suoi discepoli non basta un vago e generico senso di appartenenza a Lui e alla Chiesa; non basta porre dei gesti che rimandano a Lui. In altre parole, la salvezza non ci spetta perché stiamo nella Chiesa o perché apparteniamo a questo o a quel gruppo! Piuttosto, bisogna sforzarsi di “passare per la porta stretta”. Ma che significa quest’espressione? Forse, possiamo coglierne due valenze.
Un primo significato fa riferimento al tema stesso della salvezza. Essa non è solo “dono” di Dio da accogliere, ma è anche “compito” da vivere con responsabilità. In quanto dono, la salvezza non ha un prezzo per essere comprata. In quanto compito, chi vuole goderne non può eludere le sue esigenze, che talvolta passano per la Croce: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”. E’ la via insegnata e percorsa fino in fondo da Gesù stesso, che ha donato tutto se stesso per noi.
Ma c’è un secondo significato riconoscibile nell’espressione “passare per la porta stretta”. Esso rimanda alla vita concreta dei pastori, al tempo di Gesù. La porta stretta dell’ovile, infatti, era quella da cui, al rientro dal pascolo, passavano le pecore, una alla volta, perché l’occhio attento del pastore perché le potesse riconoscere.
Chiedendoci di “passare per la porta stretta”, Gesù ci chiede in qualche modo di “farci riconoscere” da Lui, di non camuffarci nel “gregge” (qualunque esso sia), di stare a tu per tu con Lui, lasciandoci ricoprire dal suo sguardo d’amore.
Non basta “aver mangiato e bevuto in presenza di Gesù”, né è sufficiente che Egli “abbia insegnato nelle nostre piazze”. Se non ci curiamo di vivere un vero rapporto personale con Lui, in un clima di amore, fiducia, e comunione, rischiamo di fatto di restare degli “estranei” nei suoi confronti. “Non so di dove siete” è l’amara constatazione di Gesù verso chi pretende di entrare “anonimamente” nel suo Regno.
Ma non basta. La comunione personale col Signore, se autentica, esige di tradursi in impegno concreto ad essere operatori di giustizia, a spendere la propria vita per il bene e al servizio dei fratelli, a lottare contro ogni forma di male che offende e ferisce gli esseri umani.

» XXI Domenica Tempo Ordinario, 25 agosto 2019