Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Risentimento, dal verbo latino ri-sentire. È di quelle parole alle quali basta un prefisso (ri) per caricarla di significati negativi. In questo caso, il sentire – molto più del prestare orecchio, è un sintonizzarsi con ciò che mi circonda, fino a vedermi coinvolto di persona, soprattutto emotivamente – preceduto dal prefisso ri, prende una piega negativa.
Ri, che in genere descrive un movimento contrario, qui dà il senso della ripetizione. Contribuisce, cioè, a definire la parola risentimento come una esperienza “sentita ancora”, di nuovo e in maniera molto viva. Fino a farne patire ancora le conseguenze. Sia fisiche sia interiori.
Risentimento è chiamato, in medicina, l’avvertire male, ad esempio a una ferita, nelle giornate umide. Ma risentimento è anche l’atteggiamento interiore di avversione o di animosità prolungata.
A nutrire questa forma di risentimento è la percezione sempre viva di un oltraggio ricevuto. Una specie di contraccolpo che non permette di curare con intelligenza e disponibilità gli effetti del torto subito. E impedisce di coltivare – senza ingenuità e nonostante le ferite – affetti e relazioni forse ancora possibili. Andando, semmai, a raccattarne i resti nei luoghi più nascosti del proprio cuore. E non smettendo, finché è possibile, di dare e prendere emozioni e bellezza. Senza trasformare questi sforzi in una specie di breviario dell’acquiescenza.
È vero, come ricorda Hannah Arendt, che «la disposizione affettiva dell’uomo moderno è il risentimento». Ma, aggiunge la filosofa tedesca emigrata negli Stati Uniti, c’è dell’altro. L’uomo coltiva risentimento «anche contro la propria esistenza, contro il fatto che non è creatore dell’umano né di sé stesso» (Le origini del totalitarismo).
Questo stato d’animo si fa strada in particolare quando, per i motivi più diversi, la propria è percepita come un’esistenza senza senso. Peso angoscioso di cui liberarsi, impegnando energie nella continua ricerca di vie di fuga. Da situazioni o da persone. Almeno da quelle ritenute all’origine di un rifiuto emotivo, di una negazione o di segnali di disprezzo.
Soprattutto quando si tratta di qualcuno a cui si è particolarmente vicino o intimo. Nei suoi confronti non è raro che si sviluppino sentimenti di rabbia o di ritorsione che, oltre a prosciugare risorse ed emozioni positive, evolvono in atteggiamenti ostili, cinici e sarcastici.
Insomma, il risentimento diventa una sorta di «autoavvelenamento dell’anima» (M. Scheler), reso ancora più letale per il rischio di rimanere chiusi in un circolo vizioso di ruminazione mentale. Sicché coltivare «il risentimento è come bere del veleno e attendere che l’altra persona muoia» (M. McCourt).
