Liberazione

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Liberazione e libertà non sono termini interscambiabili né sovrapponibili. Nonostante godano di una medesima derivazione etimologica. E nonostante entrambe, prima di essere processo e condizione esterni, maturino nella coscienza e nella consapevolezza dei singoli o della collettività.
Liberarsi dallo stato di costrizione carceraria, per esempio, non vuol dire automaticamente aver recuperato la condizione di libertà. La libertà è molto più dell’aver lasciato lo spazio angusto di una cella.
La liberazione che porta libertà è avere l’animo libero da un passato problematico ed essere animato dalla voglia di rimettersi in cammino, in maniera diversa. Lottare, allora, per la liberazione non sempre vuol dire aver raggiunto una condizione di libertà.
Quante storie di liberazione politica, ma anche di costumi e modi di pensare, si sono trasformate in nuove forme di dipendenza! Che dire, infatti, di lotte di liberazione risoltesi, poi, solo in una sostituzione di potenze dominatrici? Semmai, delle stesse che avevano sostenuto quelle lotte di liberazione!
Per questo, perché la liberazione possa portare ad assaporare la libertà, è necessario che alla sua origine via sia una decisa e consapevole rottura nei confronti di una vita vissuta in condizioni di opprimente e quindi insopportabile soggezione. Non solo e non necessariamente esteriore.
Si può dire che, se la libertà è il frutto, il processo di liberazione è il nome dell’albero che lo produce. Processo mai pienamente compiuto e che, per questo, richiede scelte continue. Senza che ciò metta, comunque del tutto al riparo dalla paura di perdere ciò che si è conquistato e dalla tentazione di tornare indietro.
Delle tante persone o istituzioni che si attribuiscono la titolarità nei processi di liberazione contro gli abusi e le ingiustizie del nostro tempo, le uniche credibili sono quelle libere da ogni protezione dei potenti e da ogni connivenza con le istituzioni economico-sociali che possono condizionare, fino a opprimere.
Perché un qualsiasi processo di liberazione possa divenire esperienza diffusa e condivisa, è necessario che chi lo ispira sia disposto a tenere lontana la tentazione di sentirsi migliore degli altri o quella di procedere, in un modo o nell’altro, a forme di assimilazione. Sentendosi più giusti, più avveduti e più lungimiranti degli altri.
Non c’è, infatti, liberazione vera dove c’è uno sguardo che giudica al posto di uno sguardo che accorda piena fiducia. E, d’altra parte, può fare esperienza credibile di liberazione solo chi è interiormente convinto che il senso alla propria vita, oltre alla consapevolezza dei propri errori, lo danno le aspirazioni e le attese coltivate.

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