Fede

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Sembra che il massimo riconoscimento riservato oggi alla fede sia il considerarla una delle molte potenziali fonti di significato.
Eppure, essa aspira a essere molto di più. Soprattutto se non la si costringe in maniera rigida nelle varie forme di esperienza religiosa. E la si vede, invece, intrecciata con le reali esperienze di vita. In maniera particolare con quelle relazionali, nelle quali ci abbandoniamo al “tu” di un’altra persona. Qui la parola fede rimanda al rapporto e all’incontro. E, come ogni rapporto e incontro, essa non si risolve in conoscenza astratta né in un sistema dottrinale. Non equivale a un generico slancio verso l’ignoto. E nemmeno è spazio per un autoesame che finisce, per lo più, per metterci sotto accusa perché trovati inadeguati.
È una fede, questa, dalle cui vene è cavato il sangue rosso della responsabilità e della libertà. Come insegna l’esperienza biblica del popolo di Israele. Questo, pur fortemente provato dalle circostanze, è libero di ripartire e di tentare risposte sempre nuove alle situazioni che si presentavano. Sotto la guida di YHWH o di quelli che parlavano in suo nome. Senza essere mai dispensato dalla responsabilità di scegliere: «Ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione – è l’invito rivolto da YHWH a Israele –. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (Deut 30, 19).
Fede è scegliere la vita. È la luce che accompagna il desiderio di dare un senso pieno alla propria esistenza. Fino a ritenere possibile quel che ancora non si è sperimentato o non si conosce personalmente. Spendendosi, come vuole l’etimologia della parola fede (fides in latino, e πίστις/pìstis in greco) con lealtà, impegno solenne e fedeltà alla parola data. Nell’antica Roma, Fides era una divinità allegorica. Il suo tempio era collocato sul colle Capitolino. Se ne celebrava la festa il 1° ottobre, e personificava l’onestà e la lealtà.
L’intensa, e spesso travagliata, riflessione sul rapporto tra fede e ragione può trovare una risposta nella concezione di una fede intesa quale capacità di aprirsi alla ulteriorità, a qualcosa di più, di oltre (R. Panikkar). O, «nel modo in cui i cristiani vivono la fede, permeato dalla cultura dell’ambiente circostante e che contribuisce a modellarne progressivamente le caratteristiche» (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 71).
Questa fede si differenzia dalla “credenza”, che è l’espressione simbolica, più o meno coerente della fede, formulata ordinariamente in termini concettuali da una comunità. E che spesso la allontana dall’essere quello che di essa scrive Dante: «Sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi» (Par., XXIV, 64-65).

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