Sbaglio

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

È abbastanza facile vedere utilizzati, come sinonimi, la parola sbaglio e il termine errore.
Pur nella convinzione di poter fare poco per correggere questa indebita e diffusa assimilazione semantica, non ci diamo per vinti. Un approfondimento può contribuire a utilizzare al meglio queste parole, a correggere modi di sentire e, così, valorizzarne le potenzialità.
Quello che noi chiamiamo sbaglio era, nella mentalità dell’antica Grecia, soprattutto nella cultura omerica, il μέμος ἄτης (mémos ates): l’errore involontario. Può trattarsi di una parola detta, di una scelta o di un gesto compiuti disattendendo, per difetto di attenzione o di memoria, una regola che dovremmo conoscere.
La cultura omerica distingue l’atto involontario (ἄτη/ate) da quello volontario (ἵμερος/imeros). Pur non comportando attribuzione di colpa, al soggetto dell’azione involontaria viene riconosciuta la responsabilità di quanto è stato compiuto e delle conseguenze delle sue scelte. Qui, insomma, l’involontarietà non esclude la responsabilità.
Il perché di questo particolare criterio sta nella convinzione che lo sbaglio (ate) non ha spiegazioni razionali. E, come tutto ciò che non ha spiegazione, va attribuito agli dei. Tant’è che l’ate, da stato d’animo o da smarrimento temporaneo, diviene il nome della divinità, che influenza il pensiero e il comportamento personale o collettivo.
Ate è la dea dell’inganno che fa compiere azioni avventate e impulsive che procurano danno. Senza questa considerazione non capiremmo le parole di Agamennone che, dopo il torto inflitto involontariamente ad Achille, esclama: «[…] non riuscivo a dimenticarmi di Ate che mi aveva accecato. Ma siccome mi lasciai accecare e Zeus mi tolse il lume della ragione, sono disposto a fare ammenda e ad offrirti doni infiniti» (Iliade, 19. 135-138).
A proposito della natura involontaria dello sbaglio, la concezione successiva a quella dell’antropologia omerica la affranca dal senso di colpevolezza che paralizza come veleno mortale la vita delle persone. È un passo decisivo, questo, che riconosce piena cittadinanza allo sbaglio nella struttura dell’esistenza umana e di qualsiasi processo di apprendimento.
Certo, sbagliare non è un bene in sé. Da incidente di percorso, però, può trasformarsi in prezioso alleato sulla strada per il successo personale e professionale. Così, lo sbaglio non è l’anticamera di una vita fatta di inutili rimorsi. È invece una delle tappe per la vita di chi è consapevole che lo sbaglio non ci definisce come persone e che, proprio per questo, non toglie il diritto di camminare a testa alta e di sentirsi felicemente normali e difettosi.

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