Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Vizio o malattia? Non basta l’etimologia della parola accidia o acedia a risolvere il dilemma. La si fa derivare dal greco ἀ (alfa privativo = senza) e κῆδος (kedos = cura).
Evagrio Pontico (345-399 ca.) è il più autorevole tra quanti hanno contribuito a entrare nelle pieghe di questo stato dell’animo umano. La forza e la credibilità delle analisi derivano, per il monaco del deserto egiziano, dall’esperienza che egli stesso andava facendo: «L’acedia è atonìa dell’anima, ossia una perdita di tensione dell’anima che non possiede ciò che è conforme alla sua natura».
Un’atonìa dell’anima che diventa destabilizzante smania di cambiare continuamente gli scenari della propria vita, vagheggiando altri luoghi e altre relazioni. L’insensatezza di questo modo di stare al mondo apre la strada a uno scoraggiamento generalizzato, che finisce per consegnare l’accidioso alla mediocrità.
L’atonìa dell’anima impedisce di vivere un rapporto equilibrato con la propria storia, col proprio tempo e con i propri spazi. Distrugge ogni forma di grato stupore per la realtà, sostituendolo con un tormento continuo e con una frenesia grottesca e inconcludente.
Per gli antichi Greci, l’ἀκηδία indicava indifferenza, mancanza di cura e quindi distanza da tutto ciò che invece domanderebbe passione, partecipazione e movimento, interiore o esteriore.
Una parte della teologia morale medievale chiama acedia lo stato di torpore e di inerzia della persona contemplativa, soddisfatta per la sua esperienza e che, per questo, non avverte alcun altro bisogno.
A supporto dei tanti significati che ha assunto nel tempo la parola accidia, vi è una serie di produzioni letterarie, filosofiche e artistiche, che contribuiscono a definirne con esattezza il campo semantico.
Se incerta è l’intenzione di rappresentare gli accidiosi (o semplicemente dei contadini che riposano) da parte del pittore olandese Abraham Bloemaert nel suo Paesaggio con contadini, chiaro è invece il contributo offerto alla definizione plastica dell’accidia da Jacques Callot, nella sua stampa intitolata appunto Accidia (1620).
In ambito letterario, notevole è il contributo offerto da Jacopone da Todi nelle Laudi; da Dante nel Convivio e nella Divina Commedia e da Petrarca che, nel Secretum, dopo aver definito l’accidia «una funesta malattia dell’animo» (Libro II), non esita a dipingere sé stesso come un grande accidioso.
Il significato prevalentemente negativo del termine accidia, l’ha fatta annoverare tra i sette vizi capitali. Con il trascorrere dei secoli, l’accidia è diventato il mood di certa modernità, lo stato d’animo cioè di chi è orfano di futuro e in preda allo smarrimento.
