Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
E se la parola clausura – piuttosto che provocare curiosità per luoghi misteriosi, discutibile commiserazione per vite dimezzate e per progetti di vita abortiti – riuscisse a illuminare le nebbie che spesso avvolgono gli oscuri sentieri della “vita di fuori”?
E se, da quei corridoi abitati dal silenzio o da parole appena bisbigliate, potesse sprigionarsi la luce e il calore che manca ai nostri spazi, inondati da luci a led, ma incapaci spesso di creare relazioni vere?
Fondatore della vita claustrale è considerato Cesario d’Arles, con la sua Regola per le vergini (534). Solo nel Medioevo, però, la parola clausura entra nel vocabolario giuridico della Chiesa. Lo fa attraverso il decreto Periculoso, promulgato nel 1298 da Bonifacio VIII per regolare la clausura delle monache.
In questi documenti e in quelli più recenti – ad esempio, la Costituzione apostolica Vultum Deum quaerere (n. 31) di papa Francesco – la clausura è prima di tutto una condizione interiore. Poi è un luogo.
Mai comunque la clausura è approdo per momenti nei quali la vita presenta il conto di esperienze laceranti. La solitudine, come ricorda Dietrich Bonhoeffer – debitore, in questo di san Basilio e san Benedetto – non è adatta a chi fatica a vivere con equilibrio relazioni belle e generative con sé stesso e con gli altri. «Chi non si trova in comunione, si guardi dallo stare da solo», scrive in Vita comune. E: «Chi vuole la comunione senza la solitudine, è risucchiato nel vuoto delle parole e dei sentimenti; chi cerca la solitudine senza la comunione sprofonda nella vanità, nell’autoinfatuazione, nella disperazione».
Lasciando da parte derivazioni etimologiche incerte, ricordiamo il legame che certamente la parola clausura ha con i termini latini clausūra, clàudere, clavis. Tutti col significato di chiudere a chiave.
Non si tratta di chiusura fine a sé stessa. Né di una puerile forma di protezione da pericoli provenienti dall’esterno. Assicura invece le condizioni per realizzare in pienezza il fine che si è scelto di dare alla propria vita. Crea le condizioni per fare una esperienza non estranea alla realtà, ma che non si esaurisce in essa: la presenza e la relazione profonda con Dio.
L’esperienza di clausura è superamento di una concezione funzionalistica del mondo e di un equivoco antropologico, che riduce l’utilità alla produttività materiale. La clausura, vissuta in maniera equilibrata, segna profondamente la persona. Ne affina la identità. Non cerca il mondo esterno, non lo esclude. Lo accoglie.
Sorprendente è il parallelismo che stabilisce Erri De Luca: «Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia»!